Evviva il Prusik!

di Tomaso Pizzorni

In quei tempi, quasi... biblici trattandosi dei primi anni ‘60, le Alpi Marittime costituivano per noi genovesi la naturale palestra preparatoria alle successive salite nelle Alpi Occidentali.
L’aggettivo Marittime può essere ingannevole per chi non ha mai visto e frequentato queste montagne. Solo per dare un’idea dell’ambiente, ricordo che la quota massima è di m 3247 (Argentera), che i dislivelli sono notevoli, che - allora - c’erano canaloni ghiacciati anche in estate, etc...
Montagne, quindi, che richiedono capacità, esperienza, allenamento e quanto necessita... per tirarsi fuori dai guai.
Proprio di questi voglio parlare, perchè le esperienze fatte sulla propria pelle possono essere utili anche per gli altri. Veniamo quindi al fatto, anzi al fattaccio!
La stagione è propizia (siamo a fine giugno) e con un amico decidiamo di andare nel Gruppo dell’Argentera; pernottamento previsto al Rifugio “E. Questa” (m 2388), sito poco sopra le sponde del Lago delle Portette, cupo e profondo lago che riflette le aspre pareti che lo racchiudono.
Meta dell’ascensione è la Cresta Savoia (m 2740) che la guida CAI classifica “difficile”. La cresta è costituita da cinque punte, intitolate ai principi di casa Savoia, figli del Re Vittorio Emanuele III. Nell’ordine: Jolanda, Umberto (il Re di Maggio), Mafalda (morta in un lager tedesco), Giovanna e Maria.
Siamo nelle vicinanze delle Terme di Valdieri, a suo tempo zona di villeggiatura della Real Casa. In particolare, già frequentata da Vittorio Emanuele II, gran cacciatore di camosci e stambecchi; ma anche di... sottane, possibilmente ruspanti.
Il programma prevede la traversata delle cinque punte, ciò che richiede anche il ricorso alle “doppie”. Disponiamo della necessaria attrezzatura: una corda f 11 mm da 40 metri, alcuni moschettoni, qualche cordino.
è domenica mattina, il tempo è buono, anche se ventoso. In breve siamo all’attacco del primo spigolo. Ci leghiamo in cordata con il “nodo delle guide”, il più semplice che esista. Di imbragature neanche a parlarne: ci sarebbe da fare quella, rudimentale, con i cordini incrociati, ma...
Affrontiamo tranquillamente la traversata con divertente arrampicata, alternata a discese. Eccoci ora alle prese con una “doppia” per superare un bel salto di roccia. Nessun problema, facciamo tutto secondo le regole: attrezziamo e ci caliamo con la tecnica “Comici”, senza autoassicurazione. Per i giovani credo che sia roba da archeologia alpinistica.
è il momento del recupero della corda, operazione talmente semplice e ripetitiva che... non riesce, anche se crediamo di averla fatta correttamente. Anzi, riesce in parte, nel senso che molti metri di corda scorrono, lasciandoci così con un capo in mano e l’altro su, in alto, irraggiungibile.
Continuiamo a tentare il recupero, ma invano. Proviamo a tirare di lato, oppure stando il più possibile lontani dalla parete. Evidentemente la corda si è impigliata in qualche spuntone o fessura, anche perché la roccia non è compatta. 
Siamo preoccupati: la corda ci serve per proseguire; e poi non mi va di perderla: costa tante palanche! Dobbiamo darci da fare per uscire dal guaio. Decisione inevitabile: occorre risalire la corda sino a trovare la maniera di sbrogliarla. Ma c’è pure il rischio che, così come s’è impigliata, un colpo di vento la faccia uscire dall’incaglio. Proviamo anche ad arrampicare “in libera”, cioè senza alcuna assicurazione (del resto non abbiamo altra corda!), ma dobbiamo rinunciare poiché non siamo così bravi e neppure così incoscienti.
Mi faccio coraggio e, pesando solo 55 kg contro gli 80 del mio amico, decido di risalire sulla corda (singola, per parecchi metri!), nella speranza che l’incaglio ... tenga e che la mia leggerezza faciliti la tenuta.
Ricordando di aver provato una volta, in palestra di roccia, l’operazione di risalita della corda doppia, ripasso mentalmente la lezione e preparo tre anelli di cordino: uno per l’autoassicurazione alla corda, gli altri due da usare come “staffe” per i piedi. Passo gli anelli intorno alla corda penzolante e faccio tre nodi autobloccanti, o “prusik”.
Corda Doppia.jpg (26263 byte)Così, cercando di coordinare i vari movimenti, inizio a far scorrere verso l’alto, in sequenza, il nodo prusik della “staffa” di destra (che carico con il peso del corpo), poi quello della “staffa” di sinistra (sulla quale sposto il peso); infine faccio salire l’anello in vita che mi assicura alla corda. Tutto questo per tante volte, con immensa fatica, nella speranza che la corda, sollecitata dal mio peso, anche se modestissimo, non abbia a sfilarsi. E poi?
Raggiungo, con sollievo, il punto in cui le corde sono due e proseguo, ora più sicuro, sino all’incaglio costituito da una grossa spaccatura dovuta a sfasciumi. Non mi riesce proprio la manovra necessaria per liberare la corda, anche perché questa si è infilata profondamente nell’incavo tra due roccioni, sia per i tanti strattoni dati dal basso, sia per il peso esercitato sulla corda nella risalita.
Non rimane che un tentativo: puntare i piedi sulla parete e, con le mani, in opposizione, cercare di sollevare il grosso “sfasciume” che trattiene la corda. Sembra facile ma, in parete, a parecchi metri di altezza, in precario equilibrio e con tanta di quella che si dice “fifa sana”, compiere un certo sforzo fisico costituisce per me un compito immane.
Credo di essermi rivolto ai tanti santi del Paradiso, forse sono stato ascoltato, forse la fortuna è passata dalla mia parte, forse sono riuscito a tirar fuori più forza di quanta credevo di avere; il fatto importante è che il “caso” si risolve. Così, posizionato più correttamente l’ancoraggio, scendo a corda doppia alla base e, d’accordo con il mio amico, decidiamo di non completare la traversata e rientrare in rifugio. 
Il resto non ha storia. Comunque, W IL PRUSIK... e chi lo sa far!