Kalkstein, il santuario della neve

 

Racconto di Francesco Carrer - CAI Conegliano 2004

 

Il visitatore intenzionato a trovare Kalkstein deve scendere verso Lienz dalla Sella di Dobbiaco, nella Pusteria austriaca, due spanne oltre il vecchio confine di stato, e deviare in sinistra dopo l’abitato di Sillian, ai piedi dei torrioni del castello di Heinfels. Si troverà così a risalire una valle senza sbocchi, la Villgratental, con un dislivello di oltre 500 metri disteso su circa 20 km di buona strada priva di tornanti, passando per i piccoli e graziosi centri prima di Ausservillgraten, poi di Innervillegraten. La strada termina a 1639 m di altitudine, su un ampio piazzale, nei pressi di un santuario mariano; sul lato opposto si trova invece una singolare ed intrigante birreria, tutta di vetro (sì, perché qui le birrerie sono trasparenti, bagni esclusi), come dire il diavolo e l’acqua santa. Kalkstein è un luogo che ispira i sentimenti della pace più profonda; sarà forse perché vi sorge, contornata da poche case, la chiesa del pellegrinaggio di Maria Schnee, la Madonna della Neve, con annesso cimitero. La costruzione della prima chiesa in questo luogo solitario si basa, secondo la tradizione orale, su un voto solenne pronunciato per allontanare la peste che aveva provocato la morte di tante persone nei villaggi della Villgratental, la valle chiusa. Iniziata intorno al 1640, la consacrazione della chiesa avvenne nel 1660; dopo un restauro e la successiva ricostruzione integrale del 1875, fu riconsacrata dal vescovo di Bressanone. Il luogo è certamente frequentato d’estate, meta di pellegrinaggi e devozioni, ma d’inverno resta immerso nella quiete assoluta; il silenzio è interrotto solo dal fruscio del vento o dal gracchiare di qualche corvo passeggero che si posa sul cornicione del campanile o sul portale a sesto acuto scolpito nel tufo.

 

Eppure …

Eppure, in certe giornate, ma solo in certe giornate, appena il sole comincia a lumeggiare dietro i rilievi del Thurntaler e del Markinkele, come al suono della wagneriana cavalcata, dal fondovalle inizia a giungere l’eco di una schiera in movimento. Qui arrivano con tutti i mezzi: auto, furgoni, tricicli, side-car, trattori, pulmini. Qui si radunano nel volgere di un breve arco temporaneo, con spontanea sincronia, gruppi, famiglie, coppie vere e coppie di fatto, comitive di sciatori bramosi di neve. Qui accorrono da tutte le parti austriaci, tedeschi, italiani (pochi), quasi a riformare la Triplice Alleanza. Dal piazzale s’intravvede oltre l’ultima cortina dei larici, tutta la sinfonia di candidi pendii che compongono uno scenario di alte bastionate solo in pochi tratti rocciose, ma superbamente innevate (i famosi versanti settentrionali di cui gli sciatori temono l’irresistibile fascino obliquo!). Dal piazzale, a fianco del santuario ma passando poi accanto alla birreria di cristallo, prendono avvio numerosi itinerari che si dividono nelle tre diverse vallate, la Marchenbach, l’Alfenbach, la Rossbach, per salire verso il Markinkele, m 2545, il Toblacher Pfannhorn, m 2663, il Gaishorndl, m 2615, il Kalkstein Jochl, m 2326, la Kreuzspitze, m 2624. Mille metri di salita e sudore per raggiungere le due cime più ambite, il Cornetto di Confine e il Sasso della Croce, mille metri di esaltante discesa che trasfigura come pervasi da eroici furori. Spruzzate generose di dieci, venti centimetri di neve fresca, sempre neve fresca, sono cadute la notte precedente e rappresentano il movente che anima una presenza così nutrita. Allora il santuario della neve diventa regno segreto, sottaciuto ma convenuto degli sci alpinisti. Nessuno l’ha mai dichiarato, ma tutti gli aderenti alla beata congregazione lo conoscono e lo celebrano come tale. Quasi giunti dal nulla, una cinquantina di automezzi si materializzano sul parcheggio e si allineano sul bordo della stradina che qui muore. Solo in certe giornate, magiche e particolari, dalla luce strana.

 

Lo spettacolo colorito e discretamente chiassoso trasforma il piazzale dell’austero santuario in un bazar orientale, davanti alla birreria di cristallo che, con geniale seduzione, si apre e si proietta nell’ambiente circostante. Da dentro si vede il fuori; tutt’intorno i versanti innevati sono ricamati dalle curve degli sciatori e pare che le tracce finiscano direttamente sotto ai tavoli preparati o davanti al bancone del bar. La luce si riversa all’interno, attraversa i locali, dissolve la tradizionale consistenza dei muri e delle pareti (sempre bagni esclusi), trapianta direttamente all’interno l’esterno, come star seduti in mezzo alla neve. Da fuori si vede il dentro, i tavoli affollati dai gruppi già rientrati, la teoria di bottiglie vuotate, le persone rilassate, i pochi spazi liberi che attendono di essere riempiti per coronare le gioie della sciata. Lo spettacolo è proprio assistere ai preparativi; dagli sportelli, dai cofani e dalle portiere spalancate esce tutto l’armamentario dei gruppi di scialpinisti. Sci, scarponi, zaini, racchette, cani, cartine, cartoni di birra qualora la birreria di cristallo esaurisse le sue potenti scorte. Ad abundantiam. Qui si scopre che le valchirie non sono quelle eteree creature da tutti collocate nel mitologico Walhalla, ma terrene e consistenti sciatrici con criniera leonina, bionde e ben formate, dotate di falcata micidiale. Ogni gruppo austriaco ne annovera una, due o più; gli uomini raramente si muovono in gruppi solo maschili. In base a qualche primordiale tabù o atavico pregiudizio, praticano uno scialpinismo squisitamente eterosessuale. Tutti si studiano, si osservano, si controllano, si confrontano virtualmente sulle misure e sulle potenzialità delle prestazioni. Si assiste alla revisione totale dell’attrezzatura operata con scrupolo teutonico; con scientifica precisione vengono passate in rassegna solette, lame, attacchi, pelli, ganci, cinghie, tutta l’attrezzatura compresa la temperatura del termos, interna ed esterna, e il coefficente d’imbottitura del panino. Tutto viene rivisto, palpato, comparato, monitorato finchè tra tutti i convenuti quello che si crede il meglio dotato sbotta trionfante in mezzo alla folla indaffarata: “Ce l’ho più lungo”, riferendosi alle dimensioni dello sci, oppure “La mia è più larga”, strilla la valchiria emergente sventolando la pelle di foca leopardata. Ma tutto questo accade solo in certe giornate, quando la neve è lieve.

 

Veniamo agli ultimi preparativi: anzitutto una strofinata di neve fresca sotto le ascelle per favorire l’acclimatamento ed una passata di grasso sulla faccia per evitare le scottature solari ed accentuare l’abbronzatura; il bollettino meteo viene recitato con devozione, come una litania, in tre diverse lingue: tedesco, austriaco e tirolese; le carte topografiche si sprecano: distese e rivoltate, tracciate, orientate ed azimutate;  gli ARVA vengono sintonizzati e testati con le campane del santuario che, ad intervalli regolari, piamente benedicono gli sciami di sciatori che salpano verso le loro mete lontane. Poi tutti si scaldano e tutti s’intruppano. Un po' alla volta il frastuono e gli sbattimenti si dissipano, a mano a mano che iniziano ad esulare i primi gruppi che tracciano le piste. La processione arranca, a testa bassa, preceduta dalla fanteria pesante che, con gran sbuffi da locomotiva, scava trincee profonde fino al ginocchio nella neve soffice; i traversi in risalita vengono tracciati con contenuta ripidezza ma è opportuno restare leggermente arretrati con le spalle per non picchiare il naso sulla spatola degli sci. Tutti i componenti dei gruppi e delle comitive si muovono in perfetta sintonia; se uno scarta la caramella, tutti scartano la caramella, se uno si soffia il naso, tutti si soffiano il naso, se uno si spoglia tutti si spogliano. Simultaneità e sincronismo questo è il segreto dei pellegrini di questa remota Madonna della Neve. Chi si ferma è perduto o al massimo conglobato nel gruppo successivo che inesorabilmente avanza accorciando le distanze. L’armata inizialmente compatta si divide ai primi bivi, muovendo un inarrestabile assalto in tutte le direzioni con manovre divergenti e convergenti. Tutte le vallate, valloni e valloncelli sono occupati, presidiati e accuratamente sciati. I manipoli dei battipista, seguiti dalla truppa leggera, guadagnano i duemila, poi i duemila e duecento, infine i duemila e cinquecento, sono sulle spalle e sulle antecime, espugnano le sommità e non le mollano più.

 

Qui, quando si raggiunge la cima, o comunque la meta, è obbligatorio prestarsi ad un rito del tutto salutare, il cambio della maglietta; uomini e donne lo praticano sistematicamente, a prescindere dalla temperatura e dalle condizioni ambientali. Per quelli che ce la fanno il beneficio è assicurato. Il problema non è avere il sole tiepido piuttosto che il cielo nuvoloso, variabili che influiscono sulla temperatura dell’aria; si può star certi che, nel momento in cui inizia la spoliazione togliendo gli strati superficiali dell’abbigliamento, a prescindere dalle condizioni climatiche del momento, comincia puntualmente a spirare, da uno qualsiasi dei quadranti della rosa dei venti, una brezza assassina che, come una lama, s’infila tra le costole ancora ansanti facendole gemere tristemente. Ci si trova così, di solito sopra i 2500 metri, intorno a -10, impegnati in uno sforzo disperato; in totale apnea, trattenendo tutto e chiudendo persino i pori della pelle, trasformati dall’effetto istrice in sembianze animalesche, si cerca il più velocemente possibile con frenetiche manate all’indietro di asciugare la schiena e d’infilare la maglietta asciutta, naturalmente gelida, ricoprendo il tutto, in un rush finale, ispirato dal puro istinto alla sopravvivenza. Qualcuno nell’ansia d’intromettere contemporaneamente la testa e le due braccia nelle rispettive aperture, lacera la maglietta. E’ la fine. I più esperti, dotati di diverso, quasi sovrumano ascetismo, attendono invece in posizione divinatoria, a torso scoperto per 35-40 secondi, quel tanto che basta perchè avvenga il miracolo della solidificazione del sudore; verso il minuto d’esposizione, con una scrollatina, cadono a terra perline ghiacciate tintinnando come cristallo di Boemia; a quel punto gli eletti selezionati possono rivestirsi con calma ed assoluta padronanza della situazione. Chi invece pensa di eludere questo momento topico, aggirando il cambio della maglietta, dopo le prime dieci curve in discesa è già soggetto al processo d’ibernazione e dovrà attendere il  disgelo. Per togliere la maglietta.

 

La discesa con la neve fresca è una vera libidine. Qui anche la neve è diversa; quando è fresca è farina, è seta, è tutto quello che di più lieve, morbido e delicato si possa immaginare; impressionante è la sua profondità, che rischia d’impedire il telemark o il parallelo. Centinaia di metri di discesa senza vedere gli sci, scivolando verso valle immersi fino alla cintola in un mare di finissima polvere; la sua tenera, leggiadra, consistenza protegge, materna, ed accompagna, amica. Come piange il cuore alla fine della discesa. Si sente che qualcosa di noi stessi rimane là per sempre, sui pendii imbiancati. I primi a scendere si consolano piazzandosi nella birreria di cristallo, a crauti e wurstel annaffiati da imperiali boccali di birra, guardano planare gli altri equipaggi dai diversi versanti. Un campionario delle facce che si aggirano, al rientro dalle escursioni, sarebbe ideale per lo schedario di polizia: sembrano i sopravvissuti della Tenda Rossa; volti arrossati dal freddo o bruniti dal sole, capigliature arruffate, sorrisi inebriati di complicità, occhi spiritati ma occhi vivi, occhi che hanno visto! La luce di questi occhi è preoccupante; solo chi è salito lassù ed ha vissuto le stesse sensazioni la sa decifrare, non come lampi d’insana follia ma come vitali forme di un sogno imprigionato, delle emozioni indelebili che alimentano un’inestinguibile ricchezza interiore. La bellezza della neve fresca resta impressa per ore su questi volti e rimane per me inconfondibile l’espressione trasognata dello sciatore che ha toccato la cima, che ha poi sceso mille metri in neve fresca, ma solo in certe giornate dalla luce strana.

 

Dal Santuario di Kalkstein, alle Ceneri del 2004                                                 Francesco Carrer