Folletti sul Campanile

di Diego Della Giustina - CAI Conegliano 2002

In occasione del 100° anniversario della prima salita del Campanile di Val Montanaia, un racconto ispirato a fatti realmente accaduti qualche anno fa.

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Quel tempo il folletto di turno aveva deciso di prendere sembianze umane e si era presentato agli occhi di tutto il gruppo come Frank. Era abituato a girare in città indossando consunti abiti militari, scarponi da montagna con suola scolpita e fumando non si sa qual genere di sigaretta senza filtro.

Raccontava poco di se ma quel che infine diceva aveva sempre una certa attrattiva.

Narrava infatti di aver intrapreso studi di provato impegno ma poi, forse colpito amaramente dalla freccia di Cupido, diceva di aver deciso di abbandonare la carriera di studente universitario per poi arruolarsi nella legione straniera. Il folletto che era in lui riuscì, non si sa come, a farlo fuggire dal deserto e a rimandarlo nella patria natia, in barba ai mercenari che lo avevano arruolato.

Si era affacciato un pò timidamente all'attività alpinistica e dopo qualche uscita di istruzione si era dimostrato pronto ad una salita in ambiente montano. Si unì quindi al gruppo di affiatati frequentatori delle rocce dolomitiche puntando alla consueta salita di fine stagione che quell'anno doveva per giunta svolgersi nel bel mezzo del circo superiore della Val Montanaia, laddove "l'urlo pietrificato di un dannato" di Cozzi aveva dato forma a quel bizzarro campanile di roccia che era stato a lungo tempo attrattiva per gli amanti delle crode.

Fu deciso di intraprendere la scalata in una solare e calda domenica di ottobre. Non sembrava forse di essere in estate? Talché pareva a tutti di avere a disposizione molte ore di luce. Probabilmente il folletto del Campanile aveva iniziato a fare la sua parte.

Con due automobili il gruppo si avviò di buon mattino verso i monti e nel risalire i tornanti del Vajont, la prima auto staccò di netto la seconda, un vecchio modello francese piuttosto spartano, con le sospensioni da voltastomaco e pochi cavalli sotto il cofano. Frank era alla guida della storica auto. Con la cicca in bocca, spiaccicava solo qualche parola di tanto in tanto e non poteva permettersi di tenere il ritmo dei primi della carovana. Questi, superato l'abitato di Erto, si avviarono verso Cimolais, l'ultimo abitato prima di imboccare la lunga e distesa Val Cimoliana. Ben pensarono di attendere Frank prima di piegare decisamente a nord, non sapendo quale fosse la conoscenza dei luoghi degli occupanti di quella auto.

Attesero invano talmente a lungo che dovettero lasciare spazio alla più cupa preoccupazione. Al punto che Dietrich si offrì per una perlustrazione a ritroso, lungo i chilometri appena percorsi. Scese fino a Longarone senza trovare traccia della bianca automobile francese e se ne tornò quindi verso Cimolais in preda a neri pensieri. Dove potevano essere finiti Frank e gli altri? Che le sospensioni avessero ceduto e l'auto fosse precipitata in un dirupo? Qualche segno sarebbe pur rimasto lungo la strada! Che si fossero ritirati verso casa per qualche improbabile motivo? Non erano tempi di telefonia cellulare e rimase a tutti il tarlo del mistero.

Decisero quindi di proseguire alla volta del parcheggio del rifugio Pordenone, in fondo alla Cimoliana, fra preoccupazioni e interrogativi.

Il Campanile di Val Montanaia, "il monte più illogico" di Compton, si faceva così sempre più vicino. Ed il folletto ne aveva combinata una delle sue. Qual sorpresa ebbero nel vedere tra le ghiaie del parcheggio quell'auto bianca del tutto simile alla perduta! Ma degli occupanti nessuna traccia. Era poi la loro vettura?.

Salirono quindi l'erto sentiero della Val Montanaia, in preda a mille perplessità. Tra le domande, i tentativi di risposta e i raponzoli di roccia che intarsiavano qua e là le rocce fssurate della valle, il tempo corse veloce e quando furono in vista delle rocce basali del Campanile, il sole era già sul mezzodì. Frank e gli altri erano lì ad attendere, come se niente fosse. Non vedendo l'altra auto al parcheggio del Pordenone, anche loro avevano atteso invano, ed avevano quindi deciso di proseguire comunque lungo l'aspra valle.

Il folletto del Campanile aveva deciso che qualche ora prima dovessero passare con l'auto bianca per il vecchio abitato di Erto, piuttosto che lasciarlo sulla destra, percorrendo la strada maggiore. Con un guizzo si erano quindi ritrovati, in modo del tutto inconsapevole, innanzi all'altra auto che era impegnata sull'altra, più lunga ma anche più logica via.

Non c'era più tempo da perdere e si formarono le cordate. Le calde rocce dell'articolata parete sud parevano quasi plasmarsi al procedere dei bravi e solo la rinomata fessura Cozzi, data l'untuosità degli appigli, pareva porgere qualche ostacolo alla salita. I triestini Cozzi e Zanutti nel 1902 si fermarono poco sopra quel punto, sotto uno strapiombo friabile e si dovettero ritirare. Lo stesso giorno gli austriaci Von Glanvell e Von Saar li stavano spiando con il cannocchiale da Cima Toro e pochi giorni dopo, il 17 settembre, ritentarono sulle orme degli italiani, traversando a sinistra, oltre lo spigolo aggettante, e trovando infine una facile via di salita. Ma torniamo a noi. Girato l'angolo sul ballatoio, i nostri amici si ritrovarono tutti sulla rampa conclusiva dove un enorme macigno aveva deciso quel giorno di andarsene fragorosamente verso valle, solleticato da un lieve tocco femminile. Ancora il folletto? Senza feriti, il gruppo proseguì finalmente senza indugi verso la cima, dove la campana di vetta fu suonata festosamente da Emil, Bruno, Ettore e tutti gli altri: "Audentis resonant per me loca muta triumpho". "Il più bel campanile del mondo" lo aveva definito tempo addietro l'alpinista Casara e a campanile che si rispetti non può mancare la campana.

Il sole oramai stava abbassandosi dietro Cima Toro indorando le pareti delle Cime Montanaia e Meluzzo e gli alpinisti decisero di scendere. Rieccoli quindi sul ballatoio, questa volta a nord, sopra i famigerati strapiombi delle dubbie imprese di Casara e lì impegnati ad attrezzare la doppia nel vuoto per poi scendere, diligentemente, uno ad uno.

Ettore, uno dei più esperti, doveva però trovarsi inguaiato per un nodo formatosi chissà come sulle corde sotto il discensore. E così se ne andò un'altra mezzora. Non poteva forse essere finita con il macigno rotolato a valle al termine della salita?

Alla base del Campanile, "il mostro roccioso" di Blaier, le tenebre scesero rapidamente sui monti e sulle teste dei prodi. Chi aveva sperato che in ottobre ci fossero più ore di luce? Mannaggia!

Non avevano con se la benché minima torcia elettrica e per giunta quella sera la luna non fece capolino. Nel buio più nero, con il solo aiuto della traccia visiva costituita dal timido biancore dei sassi posati sull'impervio sentiero, gli alpinisti scesero cautamente dall'alta valle, distanziandosi l'un l'altro, Frank innanzi a tutti. 

A dimostrazione delle capacità di un ex legionario.

L'ultimo ricordo che si ebbe di lui fu quello di un mozzicone di sigaretta che ondeggiava luminoso nel buio della valle.