Spedizione Alpinistico-Umanitaria

"Ecuador 2002"

di Ivan Da Rios - Sottosezione di San Polo di Piave

Sono appena due giorni che siamo in Ecuador e il fuso di 7 ore non l'ho ancora digerito qui in capitale a Quito, a m.2.850, sede della Missione Marianista di Padre Giovanni Onore, centro vitale e fulcro di una serie infinita di attività più o meno interessanti, volte al miglioramento dello stile di vita di tante famiglie indios, oltre che alla protezione della foresta primaria, della scolarizzazione di quanti più bambini possibile, e di quanto altro un cuore generoso di padre possa ricercare per i suoi figli.

Il volto della speranza

La partenza è stata fissata per le 8.30 della mattina di mercoledì 24 luglio 2002 e stranamente il mini autobus prenotato ieri sembra essere in orario.
Siamo euforici, carichiamo i nostri zainoni stracarichi di speranze e buoni propositi, oltre ai bidoni col materiale per quattro giorni di vita immersi nel parco nazionale Ecuadoriano del Cotopaxi (m. 5.896), in totale autonomia di viveri e mezzi.
Arriviamo al parco dopo 2 orette di Panamericana e smog di grande metropoli; inforchiamo una stradina sterrata e dopo qualche rapida salita e tante curve impolverate arriviamo alla base di partenza del nostro itinerario. L'ingresso al Parco costa 5 dollari; paghiamo il dovuto e cominciamo l'avventura.

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Tutto è nuovo, a partire dal paesaggio vastissimo dominato dalla cupa, bianca, immensa mole del cono vulcanico del Cotopaxi che fa capolino tra banchi di nuvole che lo coprono e scoprono facendo cucu' ai nostri buoni propositi alpinistici.
Incrociamo a quota 3.850 la laguna di Limpiopungo, uno splendido scorcio di barena veneziana spostato su un altopiano sudamericano dove le foto si sprecano ma dove anche il nostro fisico abituato al caldo dell'Italia in luglio, si piega al volere degli dei della montagna costringendoci a disfare i nostri zainoni alla ricerca spasmodica di un po' di caldo piumino d'oca per ripararci dalla bavetta d'alta quota che ci sferza e ci abbassa la temperatura corporea di una decina di gradi in un colpo.
Imbaccuccati che ci viene da ridere solo a guardarci, cominciamo a salire passeggiando e fotografando tutto quello che ci capita a tiro (sassi, rocce, vette vulcaniche, e ciuffi d'erba secca) in un panorama surreale. Fa capolino anche il rifugio, nostra prossima meta a m. 4.800, e adesso cominciamo a renderci conto delle proporzioni reali della cosa…

Un paio d'ore di camminata ci portano senza tanti problemi, lungo la carrareccia, incontro al nostro primo accampamento a quota 3.900 circa. Piantate le tende e salutati i nostri compagni che ritornano alla Missione abbandonandoci al nostro destino, facciamo una breve escursione fino ai 4.100 tanto per saggiare la tenuta fisica della nostra preparazione.
Risulta subito chiara la differenza tra i nostri amici già in Ecuador da una settimana e noi due. Le gambe pesano e il vento ci sferza con folate improvvise che trasportano le sabbie finissime che ci riempiono bocche, occhi, orecchie, mutande … rendendo la salita non proprio piacevole. In compenso il Cotopaxi, ora splendente, si fa vedere in tutta la sua bellissima e gigantesca parete nord. …. Mi sento come uno di quei granelli di sabbia finissima che ho nei pantaloni…
La cena a base di minestrone e il gonfiaggio dei materassini con la discussione per il prossimo campo ci riporta tutti attorno all'accampamento anche se ognuno ha i suoi problemi, chi con il mal di testa, chi col poco appetito, chi con la sete, chi col materassino che si sgonfia.

La notte porta assieme ai sogni per la salita di domani anche un po' di pioggia gelata oltre al pensiero per la miriade di bestie più o meno intelligenti che ci circondano e che per quanto poco un po' ci preoccupano. Il problema delle notti qui è che durano dodici ore. Non finiscono mai, e un sacco a pelo di 2 metri per 40 cm, in una tenda di 2 metri per 2 metri, in due persone, per giunta di sesso uguale, non contribuiscono a farle trascorrere più velocemente, anche se i discorsi eruditi dai quali ci lasciamo trasportare (il tonno della cena, essendo pesce, contiene molto fosforo), per un'oretta ci distolgono dal sonno ristoratore che stiamo aspettando. Poi le incombenze fisiologiche si fanno sentire e a malincuore, chi prima chi poi, usciamo dalle tende e ci rendiamo conto di quello che ci aspetta. La neve che i libri descrivono all'Equatore presso i 5.000 metri in realtà è arrivata ai nostri piedi e tutto il mondo intorno a noi si vuole mantenere nascosto dietro una spessa coltre nuvolosa che non lascia presagire niente di buono.
Ma l'alpinista, si sa, è eclettico, si adatta, per cui dopo il primo momento di sconforto, riprendiamo il nostro iter alpinistico e mentre l'acqua cerca di bollire per il the mattutino, le tende vengono smontate, e i sacchi a pelo riarrotolati, gli zaini si riempiono di nuovo e riprendono le sembianze di quelle brutte bestie che ci fanno tremare e sudare nelle gite di più giorni sulle nostre stupende Dolomiti. 
Di sudore, oggi neanche a parlarne visto che il mio termometro digitale indica circa 2 gradi ed il vento incessante ci sbatte a destra e sinistra, mentre attendiamo all'orizzonte la nuvola di fumo che ci indicherà l'arrivo della nostra "Camioneta" per portare zaini e bidoni fino al parcheggio di quota 4.500 da dove saliremo verso il rifugio. Con il solito classico ritardo il nostro mezzo arriva e noi ne approfittiamo visto che il vento è cresciuto di intensità per uno strappo fino ai 4.200.
Al parcheggio arriviamo che già siamo cotti a puntino. Caricati gli zaini lasciamo i bidoni con dei sassi sopra e ci incamminiamo. La salita mi distrugge; il vento contrario ci sputa in faccia pezzetti di ghiaccio, non riesco a respirare, ma tra una sosta e l'altra, fisicamente e mentalmente molto provato, riesco in circa un'ora ad arrivare al rifugio. Anche Walter ha avuto qualche problema con la quota, ed ora in questo rifugio senza riscaldamento e senza servizio di vitto, ci accontentiamo di un the caldo. La temperatura all'interno non salirà mai a più di 7 gradi, ed io non toglierò né berretto, né guanti, né piumino, se non per entrare nel sacco a pelo.


La sera, dopo cena, ci ritiriamo in branda a 3 piani con gli spifferi di neve che entrano dappertutto e fischiano facendomi arrivare fiocchi di neve sulla punta del naso, unica cosa che lascio al di fuori del caldo tepore offertomi dal mio sacco. Domani riposo, per migliorare l'acclimatamento. Visto che sono le cinque del pomeriggio e sono al limite,  dopo il secondo giro per recuperare i bidoni 300 metri più sotto, non cenerò neanche. Però decido di non prendere pillole varie, neanche una aspirina, voglio vedere dove sono in grado di arrivare da solo, vedere se valgo la metà di quello che penso !!.
La notte… 14 ore di branda…. devo alzarmi … non ce la faccio più … vado in bagno… mezzanotte, qualcuno parte … è l'una altre tre-quattro cordate … alle due mi viene da vomitare… la neve sulla faccia … scendo in apnea, esco dal rifugio ed il freddo mi indurisce di colpo tutte le membra .. ammazza che tempo schifido … entro in bagno e vomito … lo sforzo mi martella le tempie come una mazza … ma porca … l'acqua si è ghiacciata .. che schifo…
Alle sei ci alziamo e incrociamo in entrata i primi rientri. Sono tornati per poca visibilità, hanno zaini e giacche a vento ricoperte da uno strato di ghiaccio di circa 2 cm. Fanno pena a guardarli. Devono aver sofferto parecchio. Ma l'alpinista è eclettico, si adatta. Sono saliti fino ai 5.500 circa, ma non si vedeva un accidenti, troppo viento, troppo frio, troppo hielo, sono scesi. Ci stringiamo nelle spalle e nelle nostre giacche a vento di piumino. Certo queste guide ecuadoriane di alta quota fanno pensare…. Hanno maglioni di lana, ghette di stoffa, scarponi di cuoio, giacche tipo k-way, blue jeans, e scalano un quasi seimila con due clienti legati. Noi troppo ... loro troppo poco.


Il tentativo di salita si decide di farlo in quattro e di giorno, con maggiore possibilità di vedere eventuali pericoli oggettivi, gli altri tre sono troppo sofferenti. Io e Walter a malapena stiamo in piedi, la Piera ha mal di testa, riusciamo si e no a bere del the. Se questo è il mio limite .. siamo bel che a posto.
Il tentativo si infrange dopo neanche due ore, causa la fitta nebbia che avvolge i nostri malcapitati amici, riempiendoli di una sottile polvere rossa, sono carini da vedere, ma completamente ricoperti di ghiaccioli. Mah !!.
L'impossibilità di mettere dei campi alti ci viene confermata dalle varie guide che abbiamo incontrato, manca lo spazio necessario, e le condizioni meteo e nivologiche non sono il massimo, anzi.

 
Nostro malgrado, con un giorno di anticipo sul previsto, torniamo a casa. Affittiamo, via telefono portatile, una camionetta e caricati armi e bagagli ce ne torniamo a Quito, in circa tre ore di calvario su un Land Cruiser scassato, in otto.
Il mio morale è, assieme a qualcos'altro, al livello dei miei due allucioni, gonfi dopo tre giorni di scarponi di plastica. E quello degli altri pure. Ma l'alpinista è eclettico e si adatta.


Ripartiamo dopo un giorno di riposo per una meta che confidiamo sia più alla nostra portata, viento e hielo permettendo. L'Iliniza Norde m. 5.169 ci aspetta. Il buon hermano Luis ci accompagnerà con la solita camioneta fino al parcheggio a quota 4.000, poi sotto il solito vento incessante e pungente, attraverso boscaglie, sabbie finissime e sassi al rifugio a 4.600 metri, da qui il giorno dopo alla vetta. Detto così … però mi sembra di non avere un buon feeling con queste vette andine. 

Già la quota mi disturba per i fatti miei … se ci mettiamo il solito Eolo, egoista e incavolato, come spesso accade da queste parti, con magari un po' di dissenteria dovuta all'acqua o a chissà cos'altro, oltre a qualcuno che sfotte… boh … L'unica cosa che sputo è l'anima sulla riva di sassi e ghiaino che ci porta al rifugio. Poi le brande a quattro piani ed un pasto caldo ci rincuorano e ci fanno passare una notte tranquilla anche se fredda. Al mattino, dopo colazione partiamo senza zaini ma con un bel nebbione che ci farà anche fare belle foto " a mo' d'Inferno Dantesco", ma il panorama ???.

La salita all'Iliniza

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Dopo circa tre ore di "stenti" la vetta è raggiunta e seppure in apnea, fatte le foto di vetta ci ritiriamo di buon grado prima al rifugio, dove recuperiamo i bagagli, e poi al parcheggio, dove sono venuti a prenderci i nostri amici e familiari. Bene, i complimenti si sprecano, ma le energie spese vanno recuperate.

Un paio di giorni in Missione ci aiutano a recuperare e appena si mette al bello, forti del nostro 5.000 appena conquistato, ci ributtiamo sul Coto. Affittata la camioneta, partiamo di buon'ora per il secondo tentativo ma quando siamo sulla via del parcheggio, nel bel mezzo del solito polverone asfissiante, del Cotopaxi non vediamo nemmeno la base. In quota c'è tormenta, e circa un metro di neve fresca, ci dicono le guide in loco che se ne vanno con i loro clienti in attesa di tempi migliori. Ma vacca boia … Se da Quito non si vedeva una nuvola che fosse una. Ma porca trottola, ci tocca di tornare indietro con le piccozze nel sacco, come si dice in gergo. 
Nostro malgrado dobbiamo andarcene. Siamo neri …!!! Incazzati e pieni di polvere come al solito, senza neanche aver indossato la giacca a vento. Ah…. Che delusione.

Abbandoniamo la montagna per circa una settimana, dedicandoci al nostro primo obiettivo: la parte umanitaria; consegneremo nei villaggi interni materiale didattico, medicinali e i finanziamenti raccolti con le offerte delle serate e dei nostri sponsor (compreso quello del la nostra sezione "madre") direttamente nelle mani dei ragazzi e dei maestri che operano al limite dell'impossibile (dal punto di vista europeo), all'interno di queste piccole comunità agricole, cercando di convincere tutti che la foresta è un bene da proteggere e da salvare. Partecipiamo con il cuore in mano alla festa organizzata in nostro onore ed ai giochi successivi che ci faranno tornare bambini per qualche ora. 

Un albero per la foresta

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Poi si parte per la visita alla "nostra" riserva naturale "Otonga" che ci riserverà mille sorprese e scoperte in un ambiente incontaminato, a contatto con la natura più vera; quasi incredibile esistano veramente luoghi così. Immersi nella natura primordiale dei nostri progenitori, riscopriamo l'arte dell'arrangiarsi ( o quasi) e del vivere, ammirando uno dei posti più belli della terra.

Poi ... arriviamo al dunque. Ci siamo forse un po' lasciati trasportare dal nostro egoismo alpinistico, però sto Coto ci è rimasto sui ramponi, sarà che era una delle due cime prefisse all'inizio dei nostri bellicosi piani alpinistici, sarà che ci ha mandato in bianco per ben due volte, adesso vogliamo salirlo e basta!! ??
Stiamo bene, anche se siamo calati qualche chiletto tutti; partiamo in due tronconi distinti e i primi a tentare, Gianca, Piera e Vito, sono i primi ad aver ragione della vetta del Cotopaxi con soddisfazione di tutti ma con un dispendio di energie notevole, viste le loro facce al ritorno. 
Noi li incrociamo sulla via del ritorno, verso l'entrata del Parco Cotopaxi e non ci fanno una bella impressione. Ci sembrano sfiniti. (Si legga anche il racconto di Vittorino Mason su Intraisass - N.d.r.)
Arriviamo al rifugio Josè Rivas per la terza volta e salutiamo i gestori che oramai ci salutano come gente di casa. Ci facciamo un bel the caldo, qualche foto. C'è bel tempo per fortuna ma sempre molto vento. Confidiamo nella nostra fortuna (??) per una buona notte ed una migliore salita.


Mattina, ore 0.30. Ci imbaccucchiamo alla grande, viste le precedenti esperienze, poi scendiamo, morsichiamo due biscotti e succhiamo un po' di the. Poi, assieme ad altre 60 persone, usciamo nella bufera. Ancora !! . Allora è un vizio. E che diamine, ma tutto sto brutto tempo aspettava noi?? Qui ci deve essere qualcuno che porta sfiga allora. Ma l'alpinista per l'ultima volta vuol essere eclettico, stufo agro si adatta e calzati i guanti, il paranaso, occhialoni e pila frontale, parte alla volta della cima. O va, o anche.
Alla fine partiamo verso l'una, non ci fidiamo a fare traccia noi, così perdiamo un po' di tempo e di forze ad aspettare una delle tante cordate locali con guida, che ci fanno strada. 
Dopo i primi trecento metri di dislivello sulla morena di sabbia vulcanica ricoperta di ghiaccio e neve ventata, si calzano i ramponi. Siamo già delle maschere di ghiaccio. Abbiamo dovuto togliere occhiali e occhialini seppur garantiti antifog, in quanto la troppa umidità portata dal vento stende un velo di ghiaccio sulle lenti, impedendoci di proseguire, seppure si continui a pulirli ogni cinque minuti circa. Qui il tempo non conta più. L'orologio e l'altimetro diventano una maledizione. Seguendo le cordate che ci precedono sembriamo tutti degli automi; il sentiero verso i 5.200 diventa una pista da bob, per i numerosi passaggi al quale viene sottoposto. Il vento ci spara in faccia la solita neve ghiacciata ma noto che ormai non ci bado, vado avanti ed ogni 50 passi mi fermo a respirare. Sembra impossibile ma solo anche il paranaso mi toglie il respiro, così mi ghiaccio anche il mento, oltre alle palpebre incrostate di ghiaccio. Arnaldo benedice la sua giacca di piumino da 500 euro; la Marika chiede perché non proseguiamo visto che le altre cordate ci sorpassano; io comincio a chiedermi se ne vale la pena!!.

D'accordo, sono quello che si dice una "vittima", ma sbuffare come una vaporiera per fare 600 metri in 5 ore circa, con bufera di neve incessante, un freddo sovietico, e dei colleghi che vanno come treni… mah. Non è questo quello che intendo per andare in montagna. Sono qui e vado avanti per inerzia.
Verso le sei comincia a fare chiaro, ma tanto non si vede una tega neanche lo stesso. La visibilità è ridotta a 10-15 metri. Siamo sulla cresta finale. Solo che la cresta è a metà percorso ed io invece sono alla fine. Mi vengono in mente i consigli degli himalaysti, contare 50 passi, poi altri 50, prendere un sasso come riferimento, bere molto…!! 
D'accordo, con lo schiacciamento del globo terrestre all'equatore le cime che stiamo salendo risultano essere più alte anche dell'Everest o del K2, ma non immaginavo di soffrire in questo modo. Arrivo fino a 5 passi ora e sono a 5.680 metri secondo il mio famoso compagno altimetro. Ogni volta che mi fermo e ansimo appoggiato carponi alla mia piccozza che ha raddoppiato il suo diametro con il ghiaccio appiccicatosi, mi accorgo di addormentarmi per qualche secondo, poi i miei compagni partono e lo strattone sulla corda che cerco di tenere tesa mi riporta alla realtà. Altri 6 passi. E mi riaddormento. 
No. Basta. Non è così che voglio salire una montagna. Scelgo di abbandonare i miei compagni Marika e Arnaldo, li sto rallentando troppo. Poi mi viene da vomitare, il solito cerchio alla testa, sono stanco, ho sonno, i miei pensieri negativi vengono amplificati dal mio cervello sotto pressione, costringendomi a cedere, oppure la mia è una scelta meditata?. Arrivo sotto un seracco gigante che crea una capanna naturale, un piccolo antro di ghiaccio che mi sembra il paradiso. Mi fermo e cerco, non senza fatica, di districarmi tra corde, giacche, imbrago, pantaloni, copripantaloni, mutande, di fare i miei bisogni. Poi scelgo. 

Malgrado manchino 200 metri circa alla vetta, dei 1.100 previsti, decido di abbandonare. Attenderò la prima cordata in discesa, e farò un "cordata-stop", col pollice alto. Devo cercare di scendere per recuperare un po' di forze. I miei compagni a malincuore se ne ripartono lentamente per la vetta; io le giro le spalle e con altri 8 ragazzi tedeschi, scelgo la via del ritorno.
La discesa mi ridà fiducia nelle mie capacità, scelgo l'itinerario, guido i miei improvvisati compagni di cordata verso la "tiepida" tranquillità del rifugio Jose'. Saltati gli ultimi crepacci, e tolti i ramponi, discendo la morena ancora ghiacciata e rientro al rifugio. Sono le 9.30 circa e mi faccio fare un the che mi gusto alla grande.

 
Però adesso mi vengono i pensieri. E se avessi tenuto duro un'altra oretta?? Ma no ero allo stremo. Si ma sono sceso a balzelloni, che stremo e stremo. Balzelloni a 5.200 e più sotto, non a 5.700. Potevo almeno provarci però. Prendere "qualcosa" che mi aiutasse. Abbiamo speso una fortuna in medicinali vari. No, non mi sento particolarmente felice però ritengo di aver fatto una scelta giusta per quanto dolorosa possa sembrare dal di fuori.
Non sono comunque contento del mio stato di forma, di quanto ho dimostrato di valere o non valere. E' una sfida comunque in queste condizioni. E comincio a comprendere anche chi tenta l'ottomila. Sei al limite o quasi (almeno io), e qualsiasi decisione tu prenda potrà cambiare il tuo modo di essere, di muoverti dopo nel mondo.

Marika sul Cotopaxi

A mezzogiorno rientrano anche i miei compagni. Sono arrivati in vetta, hanno anche fatto le foto coi gagliardetti delle varie sezioni. Bravi, i complimenti si fanno col cuore. Arnaldo lo vedo provato e stanco.
La Marika mi dice: "Boh.. Non ho provato niente!!. Ho visto la fatica in Arnaldo quando ha avuto i crampi, ma la vetta non mi ha dato nessuna soddisfazione". In sette ore e venti per fare i 1.100 metri di dislivello, senza vedere una mazza, sopportando temperature rigidissime e vento forte. Forse non sono stato così stupido come sento di essere. Qualcosina meno.

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Scendendo al parcheggio prima e verso la capitale poi, il Coto ci fa rivedere la sua punta tra le nuvole.  

NO!!. Mi dispiace, ma non tornerò più per quella cima mancata di poco, come ho fatto altre volte in altri luoghi. La mia esperienza è stata completa e costruttiva, compreso il mio "fallimento". 
Ho scoperto un altro piccolo tassello della mia passione per la montagna, e credo che solo questo sia il lato importante della mia esperienza in Ecuador.
Solo Spiro Dalla Porta insiste sul fatto che l'Alpinismo consiste nell'arrivare sulla vetta; essendo un eclettico, io preferisco accontentarmi di un seracco pensile.
Voi cosa ne pensate ??


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