La morte del Generale Cantore

di Bruno Ongaro

Il Generale Cantore cadde sulle Tofane alle sette di sera del 20 luglio 1915, colpito in piena fronte mentre stava effettuando un’audace, ma poco prudente, ricognizione delle linee nemiche sulla Forcella Fontana Negra.

Fu decorato di Medaglia d’Oro e divenne subito un eroe leggendario, il primo generale caduto in prima linea accanto ai suoi soldati, e come tale lo ha immortalato, non senza retorica, la storiografia ufficiale (“la morte tra questi monti diventa sempre leggenda” è stato scritto).

La lapide sul monumento che gli fu eretto nell’immediato dopoguerra a Cortina così lo descrive: Anima eroica degli Alpini, salda come le rupi che lo videro cadere colpito in fronte, ardente come la fede per cui morì.

Gabriele D’Annunzio lo ricorda con versi memorabili nella Preghiera per i combattenti:

Il valor rise come il fiore sboccia.

Ala, una città presa per amore!

          E l’eroe d’Ala avea nome Cantore

E il suo canto è scolpito nella roccia.

in cui allude anche alla presa di Ala, occupata dalla Brigata di Cantore nei primi giorni di guerra.

Ma in anni recenti qualcuno ha avanzato dubbi sulla versione ufficiale che lo vuole colpito da un cecchino austriaco mentre, incurante del pericolo e addirittura di uno o più colpi a vuoto, si sporgeva da un osservatorio avanzato per studiare le posizioni nemiche.

Sarebbe invece stato ucciso da uno dei suoi soldati ai quali si era reso inviso per la sua durezza e arroganza. Si tratta di un’ipotesi sconvolgente che, se avesse un qualche fondamento,  getterebbe un’ombra terribile su quei soldati.

Tali dubbi, per la verità, non sembrano surrogati da alcun elemento  concreto e probante: il primo e, per quanto mi risulta, unico cenno al riguardo lo fa L. Viazzi, alpino e storico di grande valore e competenza, già nella prima edizione (1971) del suo Diavoli sulle Tofane dove riporta in nota, citandolo dal Fabbiani, uno scritto del cortinese don Pietro Alverà che a sua volta riferisce che don Cristoforo Rizzardi, parroco dell’epoca, aveva scritto nel diario della canonica: 20 luglio 1915, il Gen. Antonio Cantore restò ucciso. Dicesi sia stato ucciso da un franco tiratore ampezzano, altri dicono… Con questa sua puntuazione accenna senza dubbio alla seconda versione. Lo stesso Alverà peraltro soggiunge che quest’ultima versione non è credibile, anche se diffusa tra i soldati. Una tale voce quindi corse subito, almeno a Cortina, ma come pura diceria di soldati (tra i quali è probabile che vi fosse qualcuno che mal sopportava la durezza e l’inflessibilità di Cantore), giudicata inattendibile dallo stesso sacerdote cortinese, che pure non simpatizzava certo per le nostre armi (Cortina del resto era stata per quattro secoli suddito fedele dell’Impero e la grande maggioranza della popolazione mantenne la sua lealtà per tutta la guerra).

Per capire se dietro queste voci ci fosse un minimo di sostanza si possono consultare le fonti austriache, che non avrebbero nessun interesse a celare fatti che invece, essendo poco onorevoli per il nostro Esercito, potrebbero essere stati messi a tacere dagli storici italiani.

Lo storico austriaco più attendibile della guerra nelle Tofane è senza dubbio il Burtscher, che in quella zona combatté per tutta la guerra come ufficiale dei Kaiserjaeger, e che così descrive la morte di Cantore: …il Generale seguiva, dalle vicine posizioni italiane, le fasi dello scontro…Nemmeno il saettare dei proiettili poté smuoverlo dal suo posto. Ad un tratto egli, senza dir motto, lasciò cadere il binocolo e si abbatté al suolo; una palla lo aveva colpito in piena fronte. Nessun accenno, neppure indiretto, alla possibilità che quella palla potesse essere italiana.

Del tutto analoghe le versioni fornite da Gunther Langes (che la riprende dal Pieri) e, più recentemente, da Hans von Lichem nel suo “Guerra in solitudine”.

Sul fatto che prima di essere colpito Cantore sia stato oggetto di uno o più tiri che lo mancarono concordano tutte le versioni del fatto, sia italiane sia austriache (sebbene queste ultime siano spesso derivate da testimonianze italiane). Pertanto, o vi furono più tiratori o ve ne fu uno solo che sparò più volte.

Ora, se da un lato è del tutto inverosimile che più soldati italiani si mettessero a fare il tiro a segno sul loro generale, appare anche ben difficile immaginare che uno solo di essi (ammesso che lo odiasse a tal punto) potesse avere il tempo e la calma di sparare più volte aggiustando il tiro, senza che qualche ufficiale o commilitone se ne accorgesse e intervenisse ad impedire un tale gesto.

Inoltre Cantore guardava verso Forcella Fontana Negra (allora ancora in mano austriaca, fu da noi conquistata il 2 agosto) da un posto di prima linea; i nostri soldati gli stavano alle spalle o tutt’al più ai lati: difficile che potessero colpirlo in piena fronte in quella posizione.

Ma veniamo a testimonianze più recenti, o meglio, a rivelazioni recenti di testimonianze risalenti all’epoca dei fatti.

Sul Gazzettino del 26 novembre 1973 comparve un articolo di T. Corradini dal titolo “Fui io a sparare al General Cantore”, che riportava la confessione fatta in punto di morte da un ex Kaiserjaeger di Pergine, Attilio Berlanda, classe 1886. Secondo l’articolo il Berlanda sparò da una postazione delle Tofane a duemila (sic!) metri di distanza  con una carabina di precisione mod. 95 (il famoso Mannlicher dei cecchini) con cannocchiale Zeiss.

Benché molto circostanziato, l’articolo contiene certamente varie inesattezze: le posizioni austriache di Forcella Fontana Negra erano a circa 200–300 metri dal posto avanzato in cui cadde Cantore e non a duemila metri (distanza alla quale non c’è barba di Zeiss che permetta di centrare a quel modo la testa di un uomo); inoltre la posizione non era presidiata  da Kaiserjaeger ma da un reparto di Landsturmer (territoriali) sostituiti solo nella notte seguente da Jaeger bavaresi dell’Alpenkorp tedesco (v. P. Pieri: “La nostra guerra tra le Tofane”). Appare quindi dubbio che la “confessione” del Berlanda sia attendibile.

Ma le rivendicazioni postume dell’uccisione di Cantore non finiscono qui. 

Nel suo già citato “Guerra in solitudine” von Lichem narra così la morte di Cantore: Salito alla prima linea, si alzò in piedi nella trincea, sporgendosi col capo oltre il muretto, per seguire l’azione con il binocolo. Quantunque gli ufficiali lo ammonissero ripetutamente a non esporsi, egli non badò loro, restando impavido a dirigere l’attacco. (Si trattava invece di una semplice ricognizione: l’autore equivoca perché il 20 luglio vi fu effettivamente un attacco italiano, ma ebbe luogo il mattino e alle 19 era già terminato) Ma d’improvviso, in mezzo al frastuono della battaglia, il binocolo gli sfuggì di mano e il generale si accasciò al suolo, morto sul colpo; la pallottola di un cecchino lo aveva colpito in fronte.

E prosegue:

Io ebbi la fortuna eccezionale di incontrare un ex combattente di quel giorno memorabile, il 20 luglio 1915, un tirolese della Brixental. Mi raccontò sulla morte di Antonio Cantore particolari inediti, ma prima si fece promettere solennemente di tenere segreto il suo nome.

“I tiratori scelti di ambo le parti avevano l’ordine di mirare agli ufficiali e comandanti. Cantore indossava la giacca di un semplice fante per non farsi riconoscere, affinché non ci accorgessimo di avere di fronte un alto ufficiale, anzi addirittura un generale. Ma dimenticò di togliersi il berretto, su cui spiccava la greca indicante il suo grado e ciò gli costò la vita.”

La palla del tirolese forò sia il berretto sia la fronte del generale. Colui che l’uccise – la guerra è guerra – vive ancora (1974); il suo rapporto è fissato per iscritto, ma io romperò il segreto sulla sua persona soltanto dopo il suo decesso”.

Non so se questa rivelazione sia mai stata fatta, a meno che quel tirolese, ormai ultracentenario, sia ancora in vita.

Infine sul sito Internet del CAI di Conegliano ho recentemente trovato notizia di una lettera di un certo sig. Francesco Gregnanin di Padova apparsa sul Gazzettino del 12 agosto 1998, nella quale si legge che l’alto ufficiale fu fatto fuori dal capo dei vigili urbani di Cortina con un Mauser Swedish mod. 1896 e con cartuccia 6,5x55 senza cannocchiale. Riporto quanto mi disse personalmente un signore di Borca di Cadore di cognome Sala e del cui figlio Attilio ero fraterno amico. Nel frangente indicato, mi disse anche nome cognome e soprannome di questo cortinese.

A parte il fatto che il Mauser in dotazione all’esercito tedesco era il modello M 98 di calibro 7,92 (non esistono Mauser di calibro 6,5), abbiamo almeno tre candidati al ruolo di uccisori del povero Cantore: un ex Kaiserjaeger trentino, un tirolese (forse) ancora vivente e un cortinese capo dei vigili urbani. E forse, con più approfondite ricerche, altri se ne potrebbero trovare.

L’individuazione dello sparatore sembra quindi impresa difficile e forse ormai impossibile, ma tutte le testimonianze, anche le più recenti, attribuiscono il fatto ad un militare austriaco, appartenente forse a una provincia italiana (trentino o ampezzano). E questa, a parte il dubbio sull’identità personale dello sparatore, deve ritenersi ormai cosa certa.

Tuttavia, in una mostra sulla Grande Guerra tenuta a Cortina nell’estate del 1998, la morte di Cantore era ancora presentata come un “giallo” irrisolto, suggerendo ancora una volta l’ipotesi dell’uccisione da parte degli italiani, priva peraltro di qualsiasi riscontro documentale e logico.

Riesumare ancora questa ipotesi alla luce di tutti gli elementi e le testimonianze sopra accennati può essere forse dovuto a una eccessiva ansia di reviosionismo storico o di dissacrazione dei miti, ma non appare certo né ragionevole né accettabile.

Gli argomenti su cui si basa e che furono ripresi in un articolo di Massimo Spampani pubblicato sul Corriere della Sera dell’11 agosto 1998, sono sostanzialmente due:

-         il foro sulla visiera che presenta (oggi) un diametro di 6,5 mm, corrispondente quindi al calibro usato dagli italiani e non al calibro 8 del Mannlicher austriaco;

-         i pretesi festeggiamenti degli alpini per la morte del generale, odiato per la sua spietata durezza.

Al riguardo Spampani dopo aver posto il quesito Chi sparò a Cantore? Un cecchino austriaco o un altro ufficiale italiano, sostenuto dai compagni esasperati dalla spietata durezza del generale? riporta, tra virgolette, una dichiarazione di Paolo Giacomel, apprezzato studioso della Grande Guerra, che afferma: Il diametro del foro sulla visiera in cuoio è di sei millimetri e mezzo, quello di una pistola italiana. Il calibro austriaco era invece di otto millimetri. Ho ascoltato molti vecchi, tutti si ricordano che quando morì Cantore gli alpini fecero festa per una settimana.

Per quanto riguarda l’arma, l’affermazione contiene sicuramente un palese errore: durante la guerra il nostro esercito aveva in dotazione due tipi di pistola, la rivoltella Bodeo mod. 1874, calibro 10,35 e la più moderna pistola automatica Glisenti mod. 1910, calibro 9; se a sparare fosse stata una di queste armi il diametro del foro sarebbe stato ancor maggiore di quello del fucile austriaco, calibro 8.

D’altronde è del tutto inverosimile che a sparare possa essere stato un ufficiale con la pistola, e cioè necessariamente da breve distanza e sotto gli occhi di tutti i presenti, a parte ogni considerazione sulla fedeltà e lo spirito di corpo degli ufficiali.  Ma su questo punto ritorneremo più avanti.

E’ invece vero che il calibro 6,5 mm era quello del fucile 91 italiano, ma qui l’argomento non regge per ragioni di fisica. Infatti il cuoio perforato da un proiettile si apre slabbrandosi e col tempo tende a richiudere, almeno in parte, il foro, come ben sa qualsiasi calzolaio che per bucare il cuoio di scarpe o cinture usa un apposito perforatore che asporta un dischetto di materiale; se usasse un punteruolo produrrebbe una lacerazione che nel tempo si restringerebbe. Logico quindi che a distanza di tanti anni il foro risulti di diametro inferiore a quello del proiettile che lo ha provocato. Anzi, il fatto che il diametro sia oggi di 6,5 mm dimostra piuttosto il contrario e cioè che il foro deve essere stato prodotto da una pallottola di calibro maggiore, come l’ 8 mm austriaco (o il 7,92 mm del Mauser tedesco).

Il secondo argomento (i “festeggiamenti” degli alpini) è ancora più debole, basandosi solo su dicerie e voci prive di qualsiasi prova  o fondamento; ma è certamente più grave per l’infamante accusa che porta ai soldati con la penna.

Senza scomodare i grandi valori di lealtà, disciplina e capacità di sacrificio di queste truppe, valori reali ma spesso enfatizzati anche troppo dalla retorica bellica, basta ricordare al riguardo che il fatto avvenne il 20 luglio, a meno di due mesi dall’inizio della guerra quando l’entusiasmo dei soldati non era ancora stato fiaccato dai grandi massacri verificatisi più tardi (e soprattutto sul fronte dell’Isonzo: non dimentichiamo che rispetto a questo il fronte dolomitico era considerato dai soldati quasi una villeggiatura) e non vi era alcun serio motivo per giustificare gesti così gravi, che tra gli alpini non si verificarono mai, neppure quando furono veramente mandati al massacro, come accadde ad esempio sull’ Ortigara.

Un’accusa gratuita ed ingiusta dunque, a cui si può rispondere ancora una volta con le parole non sospette di un leale “nemico” di allora, Gunther Langes, che nel suo “La guerra tra rocce e ghiacci” scrive: L’eroico Cantore cade di palla in fronte il 20 luglio mentre esamina a breve distanza le posizioni nemiche della forcella: alpini e fanti in bella fraternità di spiriti ed armi lo vendicano pochi giorni dopo, conquistando la sera del 2 agosto, dopo due giorni di lotta accanita, la difficile posizione, saldamente tenuta dai cacciatori prussiani.

Sembra davvero poco plausibile che i soldati che lo vendicarono con tanto ardimento fossero reduci dai “festeggiamenti” per la sua morte, durati addirittura una settimana.

Pur senza volere contribuire al “mito” di Cantore, figura che, come uomo e comandante, presenta indubbiamente luci ed ombre (ma questo sarebbe un altro discorso), possiamo quindi rendere pienamente agli Alpini l’onore che meritano.

(Bruno Ongaro – Venezia, maggio 2002)